Intervista a Thomas Ogden

L’intervista è stata realizzata da Davide Rotondi.

 

DR: Buongiorno dott. Ogden, ho letto il suo ultimo libro “Prendere vita nella stanza d’analisi” (Edito Raffaello Cortina, 2022) e vorrei  porle delle domande per approfondire con lei  alcuni spunti che mi sono parsi particolarmente interessanti per chi ha già letto il suo libro e che  possono invitare altri a leggerlo.

 

In primo luogo vorrei chiederle: per lei esiste una differenza sostanziale tra psicoanalisi epistemologica e psicoanalisi ontologica?  Si possono considerare due vertici dello stesso processo?

TO: La psicoanalisi epistemologica svolge la funzione di aiutare il paziente a capire e conoscere sé stesso e si pone l’obbiettivo di portare gli aspetti sconosciuti di sé sotto il dominio del processo del pensiero secondario. Gli aspetti ontologici della psicoanalisi, invece, hanno a che fare con l’esperienza che analista e paziente stanno vivendo insieme all’interno del setting analitico.
Un esempio che mi piace utilizzare, per illustrare la differenza tra aspetti epistemologici e aspetti ontologici della psicoanalisi, è quello del paziente che arriva alla prima seduta tormentato dall’ansia. Un analista che lavora con un punto di vista puramente epistemologico si preoccuperebbe del fatto che il paziente possa ritenerlo giudicante nei suoi confronti e, allo stesso tempo, si sforzerebbe di comprendere l’ansia del paziente. L’analista che opera da un punto di vista principalmente ontologico, in risposta al tormento ansioso del paziente, commenterebbe “Lei è molto spaventato”. In questo modo l’analista sta riconoscendo chi è il paziente in quel dato momento.
Dopo il riconoscimento è possibile lavorare sulla comprensione dei significati inconsci, ma io non credo che la comprensione di tali significati sia sempre necessaria al cambiamento psichico.
L’approccio epistemologico e l’approccio ontologico costituiscono dimensioni mutuamente dipendenti della pratica psicoanalitica, non potrei immaginare di lavorare senza utilizzare entrambi i vertici per osservare ciò che sta accadendo in seduta.

 

DR: Come parla con i suoi pazienti? “Cosa dire” o “Come dirlo”?

TO: Parlo con i miei pazienti in modo rispettoso. Non li coccolo né li educo perché, in entrambi i casi, priverei il paziente dell’opportunità di vivere, nel contesto analitico, ciò che non è stato in grado di sperimentare nei suoi primi anni di vita. Non possiedo una tecnica o un metodo tramandato dalle precedenti generazioni di psicoanalisti. Ritengo di aver sviluppato uno stile analitico tutto mio. Forse la cosa più importante per me, nel mio modo di lavorare, è inventare la psicoanalisi con ogni paziente con cui lavoro.

 

DR: Come si sogna la seduta psicoanalitica?

TO: Sognando la seduta analitica, permetto alla mia mente di essere aperta a ciò che sembra essere tangenziale o completamente estraneo (come una distrazione) a ciò che sta accadendo nella seduta. Ad esempio: ricordarmi che devo rispondere ad un’email o telefonata di lavoro, notare che mi sto accarezzando la fronte con la mano mentre parlo con un paziente oppure accorgermi che sto ripensando ad un’esperienza vissuta con mia moglie, i miei figli o con un amico. Solitamente non cerco di individuare una connessione lineare tra queste esperienze di rêverie ma tendo invece a considerare la rêverie una parte costituente del contesto in cui sta avvenendo la seduta.
Non penso di essere in grado di  avvalermi dell’esperienza di rêverie con pazienti  in un setting vis-a-vis  e per questo prediligo il lavoro con pazienti che usano il lettino; credo che per i pazienti che  si avvalgono con maggior beneficio di un lavoro vis-a-vis siano più indicati i terapeuti che lavorano con quel setting.

 

DR: In che modo letteratura e poesia si intrecciano con la sua visione del processo psicoanalitico?

TO: Questa domanda evoca in me l’idea che la psicoanalisi possa essere considerata una branca della letteratura così come la letteratura possa essere considerata una branca della psicoanalisi.  Dico questo perché la comprensione del modo in cui funziona il linguaggio e il modo in cui la comunicazione non solo trasmette significati, ma è in grado di crearli, sono presupposti centrali sia della letteratura che della psicoanalisi. Un dettaglio immaginifico introdotto da un paziente in seduta funziona in modo simile ad un dettaglio fantasioso inserito da Checov all’interno delle pagine di un suo racconto breve. Detto questo, mi sembra chiaro che vi siano importanti differenze tra le due. Nella seduta psicoanalitica vi è una vera conversazione tra due persone vive, che respirano e che comunicano tra loro, mentre la letteratura è scritta da una persona e letta da un’altra. Le due persone, lo scrittore e il lettore, non si incontrano mai, tuttavia, la scrittura è in grado di creare qualcosa di molto simile all’esperienza umana realmente vissuta. Perché la letteratura, come dice George Eliot, “è la cosa più vicina alla vita”.

DR: Le esprimo la mia gratitudine insieme a quella di tutta la redazione di Area G per il tempo   dedicato a noi e ai nostri lettori.

TO: Grazie a voi. Spero, con le mie risposte, di aver trattato in breve i temi principali contenuti in “Prendere vita nella stanza d’analisi”.

 

 

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