In attesa di incontrarlo e poter dialogare direttamente con lui il 25 marzo 2023, abbiamo intervistato Xavier Pommereau per approfondire alcuni aspetti dei disturbi dell’alimentazione, e per capire come funziona il servizio di cui è responsabile presso la Clinica Psichiatrica Béthanie, dove è attivo un servizio di Day Hospital per ragazzi dai 16 ai 25 anni affetti da disturbi alimentari.
Che effetto ha avuto la pandemia sull’incidenza dei disturbi dell’alimentazione ?
XP: Il livello d’angoscia è aumentato, per la perdita dei punti di riferimento e per la mancanza di possibilità di sentire di poter mantenere il controllo. Hanno fortemente inciso
l’isolamento o al contrario la grande promiscuità familiare o le violenze in famiglia, la super attività fisica in risposta al sentimento di vuoto, di assenza e di mancanza, le angosce e l’insicurezza del futuro, l’impatto dello smartworking (accessibilità ai dolci e agli spuntini continui), l’eccesso di utilizzo della rete (con il diktat della moda e della magrezza), l’impatto sulla vita affettiva e sessuale (restrizioni imposte e timore di contrarre la malattia), la riduzione delle attività commerciali e la precarietà.
In cosa consiste il servizio di Day Hospital che gestite alla Clinica psichiatrica Betania? A chi si rivolge ?
XP: Il day hospital è dedicato ai giovani che soffrono di disturbi alimentari.
E’ un’alternativa all’ospedalizzazione a tempo pieno che proponiamo quando le condizioni fisiche lo consentono e quando da parte dell’adolescente c’è un’adesione anche minima alle cure. Permette di continuare la vita scolastica e la vita sociale ed è quindi più accettata sia dai giovani pazienti che dalle loro famiglie.
I pazienti frequentano il Day Hospital per mezza giornata e partecipano alle attività centrate sulla meditazione di gruppo, sugli incontri sia individuali che familiari, proposti dalla nostra equipe multidisciplinare.
Le sedute di meditazione invitano i pazienti a creare un «corpo gruppale» che si forma intorno alle attività artistiche o culturali, proposte per favorire l’espressività, l’apertura, la riconciliazione corpo- spirito e la riduzione delle tensioni.
Perché utilizzare le resistenze dei pazienti che soffrono di disturbi alimentari ?
XP: Mi piace dire che pratichiamo una forma di «aikido terapeutico». In senso stretto l’aikido è un’arte marziale giapponese che utilizza nel confronto la forza dell’avversario per neutralizzarla, senza opporre una forza ostile.
Noi utilizziamo questa metafora nella cura dei pazienti anoressici/bulimici per indicare che non si deve cercare di «rompere» la rigidità psichica, le ossessioni e il bisogno di controllo dei nostri adolescenti, ma che dobbiamo proporre delle tappe, un quadro evolutivo tollerabile.
Le tappe sono definite, concordate, implicano una determinata routine, almeno all’inizio, rispettando in qualche misura il loro bisogno di controllo, così da agevolare con questi adattamenti progressivi il rapporto dei pazienti con il loro corpo e con il loro funzionamento psichico.
Le tappe concordate riguardano l’evoluzione del peso (un peso che va negoziato, e che si accetta di conoscere e condividere), la dieta, il ricorso ad una continua evoluzione nella proposta dei pasti, la reintroduzione di alimenti «proibiti», l’immagine di sé nello specchio, l’attività fisica, la gestione delle emozioni ecc.
Che cosa considerate importante nella costruzione dell’alleanza terapeutica con i genitori dei vostri pazienti ?
XP: È impossibile curare i giovani che soffrono di disturbi alimentari senza attivare contemporaneamente un lavoro volto a stabilire l’alleanza terapeutica con i genitori.
L’alleanza si basa sulla non-colpevolizzazione e prevede dei colloqui regolari con i genitori affinché possano divenire consapevoli della loro importanza e del fatto che sono testimoni speciali della sofferenza dei figli – e allo stesso tempo delle vittime loro stessi – ma che non sono loro a poterli curare.
E’ necessario che possano accettare il ruolo di terzo svolto dal personale curante, comprendere che una presa di distanza non è un abbandono e che la «patologia dei legami» può colpire anche loro stessi, oltre ai loro figli.
