Ma qual era il problema? Voleva cercare di afferrare qualcosa che le sfuggiva. Le frasi venivano. Le visioni venivano. Bellissimi quadri. Bellissime frasi. Ma quello che voleva afferrare era proprio la scossa dei nervi, la cosa stessa prima che diventi un’altra.
Virginia Woolf, Al faro
Posso affermare con certezza che la mia scelta di diventare psicoterapeuta sia stata influenzata dalle letture di Virginia Woolf.
Prima di conoscere teorie e concetti psicologici, molto prima di sperimentarmi nella clinica, l’ho seguita nella sua esplorazione della mente, propria e dei personaggi che vivono nei suoi romanzi. Pensieri, sensazioni e ricordi si amalgamano l’uno nell’altro in una narrazione che da sempre è stata capace di entusiasmarmi e emozionarmi.
La sua scrittura è sempre stata, per me lettrice, qualcosa di più di un abile uso delle parole; accendeva qualcosa di sensoriale, sembrava voler descrivere un qualche ‘oltre’ di cui mi sembrava di sapere molto, pur non sapendone niente con la testa. Con immensa gioia mi sono, ad un certo punto, imbattuta nel suo diario in cui ho trovato preziosa conferma del mio sentire; dice infatti: “E continuo a chiedermi, <qual è la frase adatta?>. E mi sforzo di rendere sempre più viva la violenza delle correnti aeree, e il fremito delle ali di corvi che sbattono come se l’aria fosse piena di increspature, e di onde e di asperità…Ma quanto poco riesco a trasmettere nella mia penna di ciò che è così vivo ai miei occhi, e non ai miei occhi soltanto: anche a qualche fibra nervosa, a qualche membrana a ventaglio propria della mia specie” (Woolf, 1953). Un modo di scrivere che sembra avere a che fare tanto con le parole e l’intelletto, quanto con le immagini sensoriali e le emozioni. Forse per questo mi è tornata in mente ascoltando il convegno del dott. Correale organizzato da AreaG a maggio 2022. La sensorialita’ riempie la vita umana e costante è il nostro sforzo di darle forma, quasi a volerla addomesticare per proteggerci dal rischio di venirne travolti. Eppure qualcosa sfugge, sempre; ed è lì, mi pare, che psicoterapia e letteratura si incontrano.
Cito liberamente dal convegno, “c’è in tutti noi il desiderio di toccare il mondo, che non è soltanto conoscerlo…non possiamo avere la pretesa di ridurre tutto al linguaggio, altrimenti la realtà ne rimane impoverita…il bambino prima, l’adulto poi, vuole continuamente scoprire il mondo attraverso i suoi sensi”. Ritrovo nella biografia della Woolf scritta dalla sua traduttrice, Nadia Fusini: “La scrittura Woolfiana si arricchisce sempre attingendo alla vita; si fa più intensa e profonda per la sua volontà di registrare la straordinaria varietà di percezioni, a volte vere allucinazioni, altre volte acute esperienze sensoriali, cui la malattia la espone.Virginia sente di non pensare sempre. Lei, a volte, non pensa: sente. Se è una scrittrice, continua a ripetere, è per la sua capacita di ‘ricevere lo shock’. Di percepire, cioè, l’oggetto, l’esperienza, il pensiero, grazie a una forma di sradicato e sradicante straniamento, che la trasporta alla felicità dell’espressione” (N.Fusini, Possiedo la mia anima).
Se c’è un romanzo che in modo particolarmente evidente mostra il rincorrersi, mai pienamente esaurito, di parole e immagini, quello è ‘Al faro’, romanzo – biografia in cui l’autrice mette per iscritto le sensazioni legate alla sua infanzia e al rapporto con quei legami primari che sente essere ancora intensamente vivi dentro di lei; ho sempre ritenuto questo un libro estremamente psicoanalitico, capace di mostrare i meccanismi di una mente che pesca dalla propria storia ricordi da trasformare nel processo di rielaborazione che, per la Woolf, avviene attraverso l’azione di uno scrivere che lascia spazio alle immagini.
Dice in “Momenti d’essere“: “Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square, come a volte mi succede con i libri che scrivo, concepii ‘Al faro’; con un grande, apparentemente involontario impeto. Una cosa traboccava nell’altra. Come soffiare bolle di sapone da un cannello: ecco, questo può rendere il senso del rapido affollarsi di scene e di idee che mi sgorgavano dalla mente, sicché le mie labbra sembravano sillabare parole per conto loro mentre camminavo. Probabilmente feci da sola quello che gli psicoanalisti fanno con i loro pazienti. Diedi espressione a un’emozione autentica e profonda. Ed esprimendola me la spiegai e la misi a riposo”.
Virginia parte alla ricerca del mondo perduto dell’infanzia che in quanto tale é ricco di dati sensoriali più che strettamente verbali. Le scenedel romanzo si susseguono regalando immagini simboliche a partire proprio dal titolo, Al faro, un movimento verso quel punto luminoso che è terra ferma, che è casa, che è salvezza, ma che è anche spesso luogo mai raggiunto, mai toccato, interdetto. È lì che la scrittrice vuole tornare, per poi andare oltre; è da lì che si passa, in terapia, per continuare il proprio percorso evolutivo.
I personaggi del romanzo si muovono intorno anche ad un altro simbolo, la sig.ra Ramsay ossia la madre, come il faro presente e irraggiungibile, di cui tante cose vengono dette nel corso della narrazione ma che non riesce mai a essere toccata nella sua interezza; qualcosa sfugge sempre, la cosa in se’, la verità del sentimento, non può essere detta a parole. Di quell’amore qualcosa rimane indicibile, eppure reale e, a tratti, urgente nel suo imporsi alla coscienza del corpo e dei sensi.
Ho sempre pensato che solo in questo vuoto di parole potesse trovare spazio Lily Briscoe, la pittrice, che nel corso del romanzo osserva le vicende familiari cercando in modo disperato di trovare rappresentazione per quella cosa presente eppure sfuggevole.
Il percorso di Lily è un’evoluzione che la porta da un desiderio fusionale di essere tutt’uno con l’oggetto d’amore, a trovare la propria strada per dare forma ed espressione al suo sentire. Dice all’inizio del romanzo la Woolf: “Che arte ci voleva, nota soltanto all’amore e all’astuzia, per penetrare in quelle stanze segrete? Che stratagemma, per fondersi inestricabilmente, come l’acqua che si versa in una brocca, con l’oggetto che si adora? E il corpo poteva farcela, o era la mente che insidiosa si sarebbe infiltrata negli intricati labirinti del cervello? O il cuore? L’amore, come lo chiamava la gente, avrebbe potuto fare di lei e della sig.ra Ramsay una cosa sola? Perché non era il sapere, ma l’unione che Lily desiderava – non le iscrizioni sulla tavola, niente che potesse essere scritto in una lingua qualsiasi, nota agli uomini; lei desiderava l’intimità, che è conoscenza, pensò appoggiando la testa sulle ginocchia della sig.ra Ramsay”.
Ecco Lily davanti a un sentire senza parole, inesprimibile se non attingendo a quella realtà dei sensi cui ogni umano è ancorato fin dalle origini; c’è urgenza in Lily, c’è la spinta a trovare la strada per dire di quel sentire: “avrebbe voluto tirar via il quadro dal cavalletto, ma disse <bisogna> (…) si rimise ancora una volta nella posizione giusta per dipingere, con gli occhi socchiusi, l’aria assente, le sue impressioni di donna soggiogate a qualcosa di più generale; abbandonandosi ancora al potere di una visione che una volta aveva percepito con chiarezza, e ora doveva cercare a tentoni tra siepi e case e madre e figli – il suo quadro”.
La sensorialita’ è spesso confusa; chiede di sostare nel caos prima che l’immagine prenda forma. Lily lo scopre grazie alla sua stessa esperienza ma accetta la sfida di confrontarsi con l’indicibile: “era come con le onde: offrono un disegno simmetrico a chi le guardi dalla cima della scogliera, mentre al nuotatore appaiono divise da profondi abissi, da creste di schiuma. Ma bisogna accettare il rischio; fare il segno”
Fare il segno. Scrivere, dipingere, sdraiarsi sul lettino e lasciarsi andare, con fiducia, alle immagini che popolano la mente.
Ci vuole coraggio per correre il rischio di fare il proprio segno, per separarsi, e individuarsi. Qui mi sembra che la Woolf dica, in un suo linguaggio non psicoanalitico, qualcosa che come psicoterapeuti conosciamo: bisogna affondare nella propria storia, perdersi per un momento nei ricordi, cogliere la sfida dei sensi per sporgersi verso il futuro, verso se stessi. È attraversando la confusione delle immagini che la verità personale si fa sostanza, diventa visibile, e condivisibile. Dice Virginia: “Niente resta. Tutto muta. Ma le parole no, né la pittura. Finirà lo stesso appeso in soffitta, pensò Lily. Oppure avrebbe arrotolato la tela sotto un divano; ma anche così, anche di un quadro così, era vero. Anche di questo scarabocchio, non tanto del quadro in sé forse, ma di quello che tentava, si poteva dire che sarebbe rimasto per sempre”.
Il romanzo è scritto, il quadro è dipinto.
La parola è detta, l’immagine è sognata, svelata, interpretata.
Forse ‘la cosa’ non è stata esaurita ma almeno è stata sfiorata. Ha una forma, la si sente, la si pensa. E in quell’attimo la mente sembra acquietarsi.
V.Woolf (1927), Al faro
V. Woolf (1953), Diario di una scrittrice
V. Woolf (1972), Momenti di essere
N. Fusini (2006), Possiedo la mia anima
