Dentro territori opachi e sconosciuti

Di Marta Restelli

Ricordo le sedute delle settimane precedenti l’inizio del lockdown come immerse in ciò che sarebbe arrivato e penso che l’inconscio sociale fosse all’opera, come sa chi ha fatto esperienza dei social dreaming. Il gruppo terapeutico che conduco nel servizio pubblico ha iniziato a parlare di confini violati, di invasioni. Una paziente, l’ultima seduta prima del lockdown, mi ha chiesto se poteva abbracciarmi. Ho sognato ripetutamente una paziente in una serie di situazioni in cui lei veniva a casa mia e io andavo a casa sua. Ignara di tutto, con pensieri ancora impensabili, non credevo fosse possibile ciò a cui saremmo andati incontro.

Le prime due settimane di lockdown  sono state una sospensione per tutti. Nulla poteva essere scelto, solo vissuto. Poi abbiamo cominciato a confrontarci  e c’è stato chi ha sospeso le sedute con i pazienti e chi ha scelto di imbarcarsi nelle terapie da remoto. Essendo all’epoca al secondo anno di scuola e avendo una limitata esperienza clinica, molto per me lo ha fatto il confronto nella mia scuola di psicoterapia e l’esperienza della mia analisi personale: riprendere da remoto, mantenere il legame e imbarcarsi in questo nuovo mare, insieme.

Il gruppo di formazione nella mia scuola e l’esperienza della supervisione di gruppo mi ha allenato a tenere sempre aperti  più vertici di lettura, osservazione e confronto sul materiale clinico. Ogden parla a tal proposito della formazione come una forma di “sogno guidato” e il “sognare insieme” il lavoro durante il lockdown mi ha aiutato a metabolizzare emozioni, sensazioni, eventi che hanno invaso la realtà.

Ma il remoto non è dato una volta per tutte. Ci sono le sedute telefoniche, le sedute in videochiamata con lo schermo acceso e quelle con lo schermo spento, le sedute da casa, quelle in giardino, quelle in macchina. Quali regole di setting proporre?  Come potersi muovere? Intanto fermandosi a pensare quale modalità potesse essere più congeniale a ciascun paziente. Poi muoversi intercettando il bisogno del paziente e cucendo su di lui una stoffa personalizzata. È stato possibile per me cogliere il valore prezioso di questo insegnamento.

 

Il senso generativo dell’attesa

Con l’arrivo del COVID-19 abbiamo dovuto prendere più confidenza con lo stato emotivo che ci provoca il convivere con qualcosa di incerto: quando finirà? Finirà? Quando potrò uscire di casa? Ci sarà un altro lockdown? Stare, in altre parole, immersi in un periodo di crisi, alla ricerca di un nuovo modo di vivere e convivere. Stare in contatto con la fine e con l’inizio, in contatto con ciò che è sempre presente in un momento di transizione. La stessa parola crisi ci suggerisce le sue potenzialità. Entro ogni crisi sono presenti gli

embrioni di elementi trasformativi e di sovvertimento del preesistente, ovvero la matrice di ogni possibile cambiamento e crescita. Un momento critico o di stallo, come nella clinica, può aprire a nuovi orizzonti creativi. Credo che il punto sia la difficoltà di stare in uno spazio senza fare o intervenire, nel senso di non essere produttivi come lo si può intendere nel senso comune. Stare. Ciò può generare uno stato di angoscia perché porta con sé l’incertezza e l’ignoto. Si entra così in contatto con la nostra fragilità, il nostro essere fallibili, vulnerabili e mortali. In linea con il significato dell’attesa, occorre quella che Bion chiama “capacità negativa” per lasciar accadere, non aver fretta di riempire. Si può così prendere in prestito la metafora dell’oscurità e della luce: l’oscurità come metafora dell’ignoto e del tempo di incubazione necessario per far lavorare la creatività. La luce diventa metafora della creazione, intesa come disvelamento e conoscenza L’attesa è così necessaria per consentire l’avanzamento a masse informi interne che avanzano nell’oscurità. Mi viene in mente Nina Coltart quando cita una parte della poesia di W. B. Yeats, “Il secondo avvento”:

e quale mai rozza bestia, giunta alla fine la sua ora,

arranca verso Betlemme per venire alla luce?

Prendere contatto con l’esperienza emotiva informe è motivo di angoscia, sia per l’analista che per il paziente, e ne consegue la tentazione di illuminare ciò che è oscuro con ciò che si conosce. In questo modo però l’intuito non può più lavorare. La creatività ha in sé questo aspetto disturbante perché ci invita a sopportare un dolore interno e a separarci da una sensazione di sicurezza.

 

Chi è che vedo nello schermo?

Non avevo mai fatto esperienza di sedute e momenti formativi da remoto. Le fatiche si sono mostrate fin dalle prime settimane. Ascoltavo in modo diverso me stessa, non riuscivo a mantenere una continuità tra  il mio corpo, il mio sentire e il mio pensare. Mi sentivo in qualcosa scomposta. La sintonia tra i miei sensi scomposta. Di regola il nostro sistema sensoriale  collabora  in modo da arrivare ad una rappresentazione significativa e composita della realtà  in modo multisensoriale. Mi perturbava all’inizio nelle videochiamate vedere e sentire me stessa come non ero abituata a fare. Ne uscivo esausta dopo ogni videochiamata. Esausta per la fatica psichica di contemplare che un altro livello della relazione fosse in campo. Quello di me con me stessa e nella realtà dell’immagine che vedevo sullo schermo. Dopo una videochiamata, provavo una forte sensazione di spaesamento: dove sono? Là? Qui? Qui dove? È successo davvero? È un potente mezzo che ci fa sentire così intimamente vicini, ognuno nella casa dell’altro, e così surrealmente distanti. C’è anche qualcosa che ha a che fare con la ridefinizione dei confini: confini della realtà, confini relazionali e confini intrapsichici. Sentivo la mente congestionata. C’era qualcosa che aveva a che fare con un condensato. I confini che prima delimitavano gli spazi traballavano. Ho faticato. Vedevo tutto da casa mia. Io al centro del mondo, il mondo veniva a me. Paradossalmente sembrava saltata la distanza.  Piani così opposti, mai pensati prima insieme, si intersecavano.

Ecco, questa è una delle fatiche psichiche che facevo ai tempi del primo lockdown. Scoprire un nuovo rapporto con me stessa e, con esso, un nuovo rapporto con i pazienti.

Come poter stare così vicini e al contempo così lontani?

 

Il computer è troppo pieno

Carla è un’adolescente che ho in carico da un anno quando, un mese prima della pandemia, inizio a sognarla ripetutamente in una serie di situazioni in cui lei veniva a casa mia e io andavo a casa sua. Ciò che mi rimase in mente erano le siepi di rose che circondano la sua casa.

Non ho potuto che rivivere questi sogni quando, entrati nella fase di lockdown, abbiamo deciso di continuare le nostre sedute via Skype. Intimorita, all’inizio ho pensato: davvero ora entrerò in casa sua e lei in casa mia!

La prima volta che ci incontriamo virtualmente mi porta un sogno. In che mondo siamo entrate? C’è una stanza piena di pulsanti colorati che lei deve scoprire in che ordine schiacciare per far cessare il suono acuto di un allarme.

Mi dice che il suo computer è troppo pieno e va in crash.

Sembra mancarle uno spazio nella mente in cui poter riposare. Questo stato ora è acutizzato dalla situazione emergenziale e di isolamento. Vive in una casa molto piccola insieme agli altri componenti della famiglia e condividono l’unica camera da letto. Il computer è troppo pieno, già.

Tuttavia, mi chiedo se con lei la mancanza dei nostri corpi lasci spazio ad altro, a qualcosa di inesplorato fino ad ora.

Mi porta l’immagine di un “giardino d’infanzia” tratta da una serie tv che sta guardando e in cui il protagonista, in cui lei si rivede, dice “non ho chiesto io di essere così, di esistere”. Mentre parla mi immagino il giardino pieno di rose che ho sognato esserci in casa sua. Le dico che sembra esserci un giardino segreto in lei, come quello del celebre libro di Burnett. Le viene in mente un sogno in cui riesce ad entrare in un giardino nascosto, ma dentro è labirintico e non trova più la porta per uscire. A fine seduta sento che sta trattenendo un grande dolore, le si inumidiscono gli occhi, tocca nervosamente la sua felpa e il suo respiro accelera. Trattengo con lei, in una sorta di incubatrice, quella sofferenza e le dico che possiamo tenerla insieme, fino alla seduta successiva.

Nelle sedute seguenti mi dice che vuole preparare la torta per un compleanno e che le piace molto cucinare anche se  “è un processo lungo, richiede tempo e devi prendertela con calma”. Penso a queste nuove sedute: in effetti ancor prima di digerire, stiamo cucinando insieme delle nuove pietanze e la tolleranza dell’attesa è diventata quanto mai ora una compagna di viaggio.

A giugno inizia ufficialmente la fase 3. Carla si dimentica una seduta. Giugno però riapre anche ferite abbandoniche della sua storia: ha paura ad uscire, paura della sua aggressività e distruttività, terrorizzata di apparire come un mostro. Mi dice “è come se fossi nelle sabbie mobili più mi muovo più sprofondo”.  Per la prima volta riesce a trasmettermi a parole la sua impotenza e paura, sentimenti profondi che sento celati sotto la rabbia.

Penso che ora Carla, a differenza dell’anno precedente (2019), riesca a percepire e descrivere l’area depressiva, il buco nero dentro di sé. Le rimando con delicatezza che insieme, con la nostra attrezzatura di zattere e corde,  possiamo attraversare piano piano questo territorio.

Segue un momento di silenzio. È un silenzio diverso, condiviso, non è persa, è calma. Cosa è successo? Mi guarda e mi dice “sto mettendo ordine nella testa”.

 

La serra: alla ricerca delle condizioni per crescere

Un mese prima dell’inizio della pandemia incontro per la prima volta Stefano nell’ambulatorio dove lavoro. Lo percepisco spaventato e tale sensazione circola come stato di tensione durante tutti i colloqui iniziali. Sembra di parlare con uno Stefano terrorizzato dal contatto con l’altro, in preda a dei movimenti per anestetizzare l’effetto che gli provoca. Mi sembra di essere su un terreno pieno di geyser in cui devo fare attenzione a dove mettere i piedi (e i pensieri).  Ma cosa spaventa anche me? La prima volta che lo vedo mi trovo a controllare il “pulsante rosso” di allarme presente sotto la scrivania della stanza dove lo ricevo, pulsante di allarme da schiacciare in caso di pericolo. C’è qualcosa in lui che mi paralizza, che mi spaventa a livello fisico. Serpeggia aggressività sia nel suo modo di parlare nervoso sia nella difficoltà a pensare in seduta. Sento che lotto per rimanere presente e in contatto con lui come se mi sentissi spinta nella periferia della mia mente. Nei miei pensieri prende spazio un luogo senza tempo , un Stefano senza tempo, che cerca di tornare sempre al punto zero per non vedere lo scorrere e l’usura del tempo che passa.Ad ogni colloquio fa riferimento a quelli che mancano per concludere il ciclo che l’ambulatorio garantisce. Sento che la sua mente torna sempre sulla fine del tempo. Mi viene da  pensare al ciclo, al ritmo, all’ inizio e alla fine, alla regolazione un po’ artefatta degli eventi che annullano il tempo reale per sostituirlo con un tempo di cui lui è il padrone.  Forse la ripetitività dei suoi rituali ha a che fare con il terrore della separazione? I colloqui procedono, cerco di porlo in una posizione attiva e di esperto e inizia a raccontarmi la sua storia, concludendo ciascuno di essi con il piacere di avere un quesito a cui pensare tra un colloquio e l’altro.Mi trovo a pensare che Stefano tiene a mente ciò che gli dico, ci ripensa, sembra chiedermi se è possibile avere un filo che ci colleghi. Riflettere sul tema delle separazioni e dei distacchi, è un’ area che ancora mi pare molto difficile da tollerare per lui.

I giorni seguenti inizia l’emergenza COVID-19. Riprendiamo due settimane dopo con sedute telefoniche. Scelgo questa modalità perché sento, nell’uso della videochiamata, un rischio di invasione del suo ( e mio?) spazio privato. Il limite di questa scelta è che però lo chiamo io, anch’essa un’invasione. Inizia così una nuova fase del percorso. Si pone diversamente nei miei confronti, sembra meno in allerta e più disposto a entrare in dialogo con me e con i suoi pensieri. Il clima emotivo tra noi muta e ho la percezione di entrare maggiormente in contatto con lui. Dopo qualche colloquio mi dice che “sono sedute proficue” e aggiunge “ero diffidente all’inizio dei nostri colloqui. Ora che sono a casa nelle sedute c’è stata un’accelerata, sono tutto con me stesso. Non sono disturbato dall’ambiente esterno. A casa gli stimoli spariscono”.  Faccio la fantasia che il contatto in presenza sia stato troppo “vivo” per lui, come se avesse la pelle di un grave ustionato che va trattata con un dispositivo di protezione. Il telefono avrà questa funzione fino a Settembre, momento in cui apriremo a una nuova fase del percorso passando all’uso di Skype, in modo che sia lui a chiamarmi e possiamo rivederci vis a vis.

I momenti di pensabilità si alternano a interventi repentini in cui mi chiede di eliminare il sintomo, con la stessa tonalità, distanza e pressione presente all’inizio della consultazione. Mi chiedo se  la rigidità compaia quando c’è troppo pensiero e vicinanza. E’ come se Stefano si mantenesse su due binari che vanno in direzioni ambivalenti, come se mi ascoltasse con due orecchie separate: una segue il discorso con me e l’altra interviene a bloccarlo per mettere unadistanza.

Continuo e continuiamo con questa danza: a volte un passo avanti, un passo indietro, aperture e chiusure, senza più troppa paura di quei passi indietro e chiusure perché è come se servissero a cercare l’equilibrio per il passo in avanti successivo.

Come si può stare con questo paziente? I mesi che ci hanno portati fino ad oggi mi fanno pensare che accanto a quella che Bolognini chiama “nutrizione placentare” (“la presenza costante dell’oggetto, il setting, l’ascolto, i dispositivi basici di segnalazione di presenza e di corespirazione e la funzione contenitivo-ricettivo” concava” contrapposta a quella “convessa” di chi emette qualcosa”, p. 104), di cui credo che Stefano abbia bisogno, si sia creato uno spazio in cui è possibile pensare a una sua crescita. Prima della pausa natalizia mi dirà, a fine seduta, per la prima volta che gli mancherò. Di ritorno sceglierà come stanza per la seduta non più la camera da letto, ma la cucina. A Gennaio, a partire da un inizio seduta in cui mi porta la sua fatica di convivere con il sintomo, mi sorge nella mente l’immagine di una serra in cui ci sono piccole piantine che hanno bisogno di una luce e una temperatura più personalizzata rispetto a quella del normale ciclo circadiano proposto dalla realtà esterna.

Procedendo con la seduta, associa che il rituale di pulizia degli oggetti non lo fa mai con la luce diurna, ma deve oscurare la camera con le persiane e usare la luce artificiale. Stefano ha iniziato da qualche mese a progettare l’uscita di casa, ha ottenuto il finanziamento per un mutuo e navigando insieme mi dice “ho voglia di rinascere dottoressa, voglio trovare un modo, rinascere anche nelle relazioni sociali, poter usare il telefono per sentire gli amici, usare i miei oggetti quando esco, anche perché pulendoli li rovino io. Ecco rinascere”. Gli rimando “Come le piantine della serra?” e ci addentriamo così nell’immaginarla insieme, concludendo che “allora bisognerà usare una luce e una temperatura adeguata”.

A posteriori credo che l’utilizzo personalizzato dei dispositivi tecnologici abbia consentito un procedere delle sedute che potessero rimettere in campo la sensorialità del paziente, partendo inizialmente dal solo udito per poi recuperare la vista unitamente all’udito. Dopo due anni di terapia non siamo ancora tornati a essere in presenza, ma credo anche che con lui possa essere l’obiettivo del nostro lavoro: poter stare in due in una stanza, in un corpo a corpo meno spaventoso.

Ciò  prende in considerazione i tempi della mente, ovvero tempi che non sono puntuali e lineari, ma sono soprattutto tempi di riverbero. Le trasformazioni avvengono infatti dopo i necessari tempi di digestione. Il non conosciuto, il non pensato è ciò di cui si va alla ricerca e con l’attenzione, che porta con sé l’attesa, si può favorire l’emergere di qualcosa di nuovo, di creativo viaggiando con il paziente in territori opachi e sconosciuti

Scritto classificatosi al secondo posto della I Edizione del “Premio Eugenia Pelanda – Scritti clinici degli specializzandi in psicoterapia”.

L’immagine utilizzata è un dipinto ad acquerello realizzato da Marta Restelli.

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