L’inizio di tutto
È novembre 2019 e la mia vita sta per cambiare radicalmente; il quanto ancora non lo posso neanche lontanamente immaginare. Dopo i canonici cinque anni di percorso universitario e l’anno di tirocinio post-lauream, in un vortice di emozioni mi ritrovo ad affrontare tre imminenti sfide: l’inizio del percorso di dottorato, l’esame di stato e l’inizio della scuola di psicoterapia. La scelta del luogo in cui intraprendere le prime due avventure è molto naturale: da sempre studente di Bicocca, le rimango fedele. Diversamente solo per la sede, anche la scelta della scuola di psicoterapia avviene linearmente: dopo un anno trascorso tra le mura del Centro Clinico milanese di Area G, supervisionato dall’incommensurabile dottoressa Pelanda, mi innamoro dell’atmosfera e decido che quello sarà il luogo della mia formazione clinica. Se il primo ostacolo incontrato a dicembre (la bocciatura all’esame di stato) mi sembra insormontabile, nulla è rispetto all’avvento della pandemia da COVID-19 di marzo 2020. Proprio all’inizio di tutto, tutto si sospende e così rimane per ancora chissà quanto.
E ora che si fa?
Questa breve premessa di contesto mi permette di mettere a fuoco quello che stava succedendo nella mia vita quando un parassita 600 volte più piccolo del diametro di un capello umano ha deciso di bloccare l’intera umanità (alla faccia dell’effetto Butterfly). Oltre all’interruzione dell’intensissima attività produttiva mondiale che caratterizza l’epoca post-moderna, questo microscopico virus ha interferito enormemente con un processo interiore che stava avvenendo dentro di me e in migliaia di altri colleghi psicologi: la trasformazione identitaria da studente laureato a professionista specializzando in psicoterapia. Come noto a tutti (o almeno a chi è del mestiere), il passaggio da laureato in Psicologia a Psicologo (e in alcuni casi a specializzando in psicoterapia) è un rito in cui la toga praetexta della teoria viene sostituita dalla più matura toga virilis della pratica. Questa trasformazione implica, infatti, il raggiungimento di un traguardo che i clinici bramano disperatamente dal primo anno di triennale: la possibilità di vedere pazienti e svolgere attività clinica. Questo piccolo grande traguardo era per me momentaneamente rimandato, sia per lo slittamento alla sessione successiva di esami di stato, sia per la temporanea sospensione di tutto. Stava succedendo un po’ quello che succede agli adolescenti che stufi delle lezioni anonime del liceo, si iscrivono all’università colmi di aspettative ed ebbri di entusiasmo, per poi rimanere amaramente delusi dagli obbligatori corsi di base del primo anno e dai primi fallimenti agli esami. Mi ritrovavo quindi in una frustrante zona grigia, in attesa di poter svolgere l’esame di stato, in attesa di poter svolgere il tirocinio e di conseguenza di poter discutere di casi clinici insieme al gruppo classe. Come non fosse bastata la confusione che sperimentavo rispetto alla mia vita “clinica”, dovevo contemporaneamente gestire la nascita e l’accudimento della mia vita “di ricerca”. Anche su quel fronte, infatti, il lavoro era stato completamente stravolto dall’obbligo di rimanere in casa, non potendo accedere all’ufficio, al contatto coi colleghi e al mondo accademico come luogo di scambio e confronto. Tra mille webinar, aperitivi online e video-ricette decido quindi di sfruttare quel momento di multiple sospensioni per coltivare quella che Bion chiama capacità negativa: la possibilità di rimanere in attesa, in silenzio senza dire né fare nulla, senza aspettative. Nel frattempo, la mia scuola si organizza sin dall’inizio del lockdown con la didattica a distanza e continuiamo lo svolgimento delle lezioni su Zoom. Questa nuova modalità al tempo stesso è stata una potentissima risorsa, ma anche qualcosa di estremamente faticoso. Se da un lato, infatti, ci ha permesso di proseguire le lezioni nonostante tutto, rimanere davanti a un pc in ascolto per otto ore al giorno per due giorni consecutivi diventava sempre più impegnativo. In aggiunta, oltre a permetterci di svolgere le lezioni, l’introduzione delle lezioni online ha sdoganato una flessibilità nella frequenza che ancora oggi permette di partecipare in maniera mista agli insegnamenti. Se questa flessibilità sarà stata totalmente un valore aggiunto, lo sapremo dire solo con il tempo.
Con la fatica di cui tutti siamo a conoscenza, finisce il lockdown e la vita sembra pian piano riprendere. Col tempo le cose si sistemano anche per me e a ottobre dello stesso anno inizio finalmente il tirocinio in un consultorio milanese. Trovo un luogo da subito accogliente e in cui vengo supervisionato con cura e guidato nelle scelte della pratica clinica. Inizia così la mia esperienza sul campo, in cui da subito intervengono degli elementi non “comuni” generalmente in psicoterapia, ma comunque peculiari del periodo pandemico. Di seguito ne analizzo alcuni che hanno particolarmente impattato sulla mia formazione di psicoterapeuta.
Superman e Clark Kent sono la stessa persona
Dai fumetti di Jerry Siegel e Joe Shuster abbiamo imparato tutti un’importantissima lezione: bastano un paio di occhiali per camuffarsi e rendersi irriconoscibile. È così, infatti, che Superman e Clark Kent mantengono due identità distinte, non lasciando dubbio alcuno che possano essere la stessa persona. Qualcosa di simile si è introdotto nel setting psicoterapeutico da quando è stato introdotto l’obbligo di utilizzare la mascherina come misura di sicurezza sanitaria. Questo ostacolo percettivo ha creato una condizione relazionale per cui sia al clinico che al paziente non è consentito accedere a metà del volto dell’altro, escludendoci dalla possibilità di attingere a moltissimi indizi visivi che le espressioni facciali spesso veicolano. Riuscire quindi a stare insieme al paziente e alla sua sofferenza in questa condizione diventa come guardare un film con un occhio chiuso: è possibile guardarlo e seguirne la trama, ma con estrema fatica e perdendosi ogni tanto qualche dettaglio escluso dal campo visivo. In questa visione peculiare del film, oltre a una delle due palpebre abbassate, si aggiunge anche un orecchio tappato. La voce, infatti, incontra appena fuori dalla bocca una barriera che conduce in diverse occasioni all’incomprensione. Sono svariate le situazioni in cui, per il clima emotivo del momento, nella stanza col paziente sia necessario utilizzare un tono di voce basso, calmo e che veicoli un certo messaggio anche grazie al volume stesso. A causa della mascherina, questi momenti diventano degli inciampi, in cui è necessario o optare per un tono di voce più alto (e risultare magari meno sintonizzato), o scegliere di comunicare con un tono di voce attenuato, incorrendo nel rischio di un “come, scusi?” da parte del paziente. In questo secondo e più comune caso, si genera quindi un vissuto di incomprensione nel paziente stesso che si va a sommare alle altre incomprensioni naturali già ben note a tutti nella relazione terapeutica. Se per uno psicoterapeuta già formato questa esperienza di relazione si trasforma nella visione di un film con un occhio chiuso e un orecchio tappato, per uno specializzando si tratta di vedere lo stesso film con la stessa modalità partendo in aggiunta dal secondo tempo. Il vissuto, infatti, che nel tempo ho riscontrato è stato proprio quello di star imparando a far qualcosa di estremamente complesso già per propria natura, e in aggiunta di starlo facendo con un ostacolo in più. Quando poi la relazione avviene solamente con il volto coperto, alla prima occasione di incontro senza questa barriera (ad esempio una seduta da remoto o anche un semplice abbassamento per soffiarsi il naso), sembra di incontrare una persona completamente diversa. In quell’occasione diventa quindi necessario ricordarsi che Clark Kent e Superman sono la stessa persona.
Questa complessità, che si aggiunge alle molteplici già esistenti della relazione terapeutica, mi ha fatto inizialmente credere che lo svolgimento delle sedute da remoto fosse un’opzione molto migliore, in quanto non manchevole di quella parte così fondamentale che è l’accesso visivo alla zona bassa del volto del paziente. L’esperienza ancora una volta mi ha anche insegnato che accedere completamente al volto sia tanto importante quanto poter accedere alla corporalità e alla spazialità del paziente nella stanza.
Questo setting non ha più pareti
Incontrare il mio primo paziente con la mascherina è stato sicuramente qualcosa di estremamente difficile e al tempo stesso sfidante per i motivi esposti più sopra. Se le sedute con il primo paziente implicano la difficoltà di indossare la mascherina, le due pazienti successive (il cui percorso inizia lo stesso giorno) sono costretto a vederle online a causa della mia positività al COVID. Con l’ingenuità e la spavalderia tipica di chi è alle prime armi, percepisco questo solamente in termini di nuova avventura e sfida, allontanando le opinioni negative di terapeuti più esperti verso la terapia online accusandoli di rigidità ed estremo tradizionalismo nei confronti del setting. Fresco di letture sul setting, dal più narrativo Semi al più didascalico Gabbard, mi ritrovo costretto a rigirare la disposizione dei mobili nella mia stanza da letto di modo tale che i pazienti non avessero accesso alle parti più personali della mia stanza. Già questo primo cambiamento crea vissuti contrastanti: da un lato la soddisfazione per la creazione di un piccolo spazio di lavoro personalizzato ma professionale che dall’interno della mia cella di reclusione mi permetteva di continuare l’attività clinica (o iniziarla); dall’altro lato la particolare sensazione di “invasione” in uno spazio che avrebbe dovuto essere solamente mio, con la fatica ancora una volta di imparare questo mestiere “senza un pezzo”. Sperimentavo, infatti, il passaggio dal paziente mascherato al viso libero da ogni copertura, che però veniva trasmesso dentro i confini di uno schermo luminoso e non mi concedeva la possibilità di vedere il paziente nella sua totalità corporea. Quella che vedevo come un’idea arretrata di “genitori attempati” (ovvero il giudizio negativo di terapeuti più esperti nei confronti del lavoro online) si è trasformato presto in una scomodità che si insinua all’interno del setting, un sassolino fastidioso dentro alla scarpa del lavoro clinico. Proprio ripensando a questi due casi che iniziavano da remoto, trovo interessante anche la percezione stessa delle due pazienti nei confronti delle sedute online. La prima paziente, infatti, non appena è stato possibile tornare a svolgere le sedute presso il servizio, ha richiesto di vederci di persona. La seconda paziente, invece, nonostante l’iniziale insoddisfazione per la terapia da remoto, una volta conclusosi il mio isolamento, ha richiesto di poter continuare con la stessa modalità perché ancora spaventata dalla possibilità di contagio. In entrambi i casi le sedute da remoto hanno quindi permesso di svolgere il lavoro clinico in una momentanea sistemazione del setting che è stata rimodulata successivamente solo in un caso. In questo senso, quindi, è stato possibile rendere il setting flessibile adeguandolo a una situazione specifica, per poi tornare a uno stato “originale”. Ancora più interessante si dimostra, però, il secondo caso, in cui la flessibilità momentanea sostenuta dalla paziente con leggero fastidio iniziale, fornisce un contenimento adeguato alla sua situazione di disagio e anzi le permette di adagiarsi su questa flessibilità, utilizzandola poi come strumento per ovviare al problema del possibile contagio.
Dunque, apprendere il lavoro clinico durante la pandemia ha sicuramente influenzato la flessibilità di tutti nel costruire un setting, insegnandoci a comprendere come crearlo insieme al paziente nel rispetto e ascolto delle sue domande. Proprio all’interno di quella co-narrazione trasformativa di cui parla Antonino Ferro in diversi suoi scritti, diventa possibile dotare di significato anche gli aggiustamenti che si rivelano necessari per la costruzione del setting e inscriverli all’interno della storia della relazione di cura. In aggiunta, nel periodo pandemico questo setting e le co-narrazioni interne di paziente e di terapeuta sono stati contaminati anche dalla presenza del virus e della possibilità di “contagiarsi”. Cosa succede, infatti, quando uno dei due risulta positivo al COVID?
Self-disclosures positive
Avere l’influenza prima del 2020 si risolveva semplicemente con qualche giorno di malattia a casa, in cui le persone attorno al malato non prendevano chissà quali precauzioni. Essere positivi al COVID dal 2020, veicola invece una serie di fantasie e narrazioni interne riguardanti il contagiato di irresponsabilità, colpa e vergogna che rendono questo sfortunato un poco di buono che non rispetta le regole. “Dove l’hai preso?”, “Ma come hai fatto?”, “Sai chi te l’ha attaccato?” sono solo alcune tra le infinite fastidiosissime domande che ci siamo fatti negli ultimi due anni, durante i quali semplicemente respirando si poteva essere infettati. Queste fantasie diventano centrali nel lavoro clinico, soprattutto quando il paziente o il clinico risultano positivi al COVID. Durante la mia formazione ho avuto la possibilità di sperimentare entrambe queste situazioni, e nello specifico la seconda per ben due volte. Mi concentro sulle situazioni in cui io (ovvero il clinico) sono stato positivo al COVID: la prima volta in maniera asintomatica a fine 2020 (quando eravamo ancora all’inizio e la positività era una vera e propria notizia), e la seconda volta in maniera sintomatica moderata a fine 2021. Credo possa essere interessante ragionare su queste situazioni mettendole a confronto per la rilevanza che questo tema assume circa le fantasie del paziente e le self-disclosure. Nella prima situazione sono risultato positivo in seguito a uno screening preventivo all’interno della struttura in cui svolgo il tirocinio, rimanendo per l’intera infezione asintomatico. Lo scopro il giorno dopo aver dato appuntamento per la settimana successiva a entrambe le pazienti di cui sopra. Mi ritrovo costretto a ricontattarle per spostare il primo colloquio online, spiegando a entrambe che sono inaspettatamente risultato positivo. Complice nell’alimentare quello stigma che caratterizzava i positivi nel primo periodo della pandemia, mi rendo conto che voglio implicitamente sottolineare alle pazienti che non sia stata colpa mia, che sia successo senza accorgermene. Ho comunque comunicato con totale onestà e trasparenza la mia positività perché mi sembrava poco autentico in un momento come quello non menzionare quale fosse il problema che causava repentinamente questo cambiamento nel setting. In un confronto con la tutor di tirocinio, lavoriamo sulle possibili narrazioni che le pazienti avrebbero potuto costruire internamente di un terapeuta che al primo colloquio si ritrova a dover spostare tutto online a causa del COVID.
Ragionando a livello simbolico, la mia tutor mi sprona a interrogarmi su che fantasia riguardante me possa aver elicitato nelle pazienti, ipotizzando che possa aver anche veicolato un’immagine di debolezza e difficoltà nel sostegno. Al contrario, credo che il mio intento fosse proprio di risultare onesto riguardo a ciò che stava accadendo e cercando anche di favorire una fantasia di me in qualità di “umano” che è soggetto a tutte le incombenze della vita proprio come tutti gli altri. Non so dire quale fosse la scelta giusta, ma questo episodio ha fatto sì che iniziassi a interrogarmi più approfonditamente rispetto alle comunicazioni verso i pazienti. A un anno di distanza risulto positivo al COVID una seconda volta, ma essendo all’estero per motivi di lavoro, vedevo i pazienti da remoto, facendo intenso utilizzo di quella flessibilità da pandemia menzionata poco sopra. Nonostante a fine 2021 lo stigma legato alla positività fosse molto meno diffuso, anche a causa/grazie alla sempre più dilagante diffusione della variante Omicron, mi rendo conto che la comunicazione del mio stato di salute non sia rilevante per il setting e per il lavoro che stavo svolgendo con i pazienti in quel momento.
Queste due occasioni sono state motivo di riflessione circa la possibilità di parlare di contagio in maniera onesta e sincera, anche nell’ottica di costruire una relazione basata sulla fiducia, pur passando in alcuni casi attraverso piccole self-disclosure sullo stato di salute del clinico. Nella formazione da specializzando che tutt’oggi prosegue, mi è stato insegnato che l’autenticità da parte del clinico sia un ingrediente fondamentale per la costruzione di una relazione di fiducia reciproca che possa essere efficace nella cura della sofferenza del paziente. L’altro lato della medaglia è rappresentato però anche da alcuni casi in cui la mia autenticità e soprattutto la mia individualità è risultata però ingombrante nella stanza di terapia.
Giudizi universali
Da specializzando in psicoterapia a orientamento psicoanalitico è dal primo giorno di lezione che mi viene insegnato ad astenermi dal giudizio, rimanendo costantemente neutrale e imparziale. Se per le ideologie politiche e religiose estremiste presentate da alcuni pazienti in sede di colloquio è stato sempre possibile astenermi da ogni tipo di giudizio, riuscendo a lavorare solo sul significato che per il paziente aveva tutto ciò, durante la pandemia si è creata una nuova area di divisione a causa della quale la capacità del clinico di rimanere neutrale è stata messa a dura prova. Dallo sviluppo dei vaccini per l’immunizzazione al COVID-19 si sono appunto distinte due “fazioni”: pro-vaccino e no-vax. Se durante gli anni degli studi universitari capitava spesso di chiedersi “e se mi trovassi davanti un paziente nazista convinto, che faccio?”, mai mi era capitato di pensare “e se il paziente che ho in carico mi dice che non vuole vaccinarsi?”. Tralasciando la mia posizione personale a riguardo, ho avuto la possibilità di confrontarmi con un paziente la cui decisione circa il vaccino era molto precisa, rigida, ma soprattutto veniva portata spesso all’interno del colloquio. In quanto specializzando alle prime armi, ed essendo un tema molto caldo durante la pandemia, è stato qualcosa di difficile gestione, in quanto il paziente nella maggior parte dei colloqui poneva al centro del discorso l’obbligo vaccinale, le difficoltà legate all’obbligo di green pass per accedere ai luoghi, conducendomi davanti al confronto vero e proprio in cui era quasi impossibile non esprimere un giudizio a riguardo. In un caso come questo la propria individualità viene messa a dura prova dai vissuti intensi suscitati dal paziente, rischiando di non avere la possibilità di astenersi da un giudizio e di conseguenza incorrere in un confronto ideologico. Dopo diverse situazioni di impasse in cui ho commesso alcuni errori, è stato possibile portare questa tematica in supervisione con una docente della mia scuola e confrontarmi con il gruppo classe. Questo dialogo mi ha permesso di andare oltre ai soli vissuti emotivi estremamente intensi che il paziente suscitava in me durante la seduta, concedendomi la possibilità di vedere e pensare insieme a lui quale fosse il motivo di discussione circa i vaccini in relazione alla sofferenza che portava. Ancora una volta accedere a una dimensione di narrazione co-costruita insieme al paziente ha permesso lo svolgimento del lavoro clinico e il superamento di quello che sembrava essere un blocco. Proseguendo poi nel percorso sono emerse anche alcune opinioni politiche del paziente simpatizzanti per l’estrema destra: questa volta, però, ero un po’ più pronto.
Per sommi capi
Scrivere questa breve riflessione mi ha dato la possibilità di riflettere su quanto la pandemia abbia impattato non solo sulla mia vita a livello personale, ma anche sulla mia formazione, influenzandola profondamente. Proprio a partire dalla scomparsa della dott.ssa Pelanda, in parte dovuta anche al virus, realizzo ora quanto poco abbia avuto la possibilità di apprendere dalla sua sconfinata esperienza nel lavoro con gli adolescenti, elemento che era stato centrale nella mia scelta della scuola dopo averne avuto un abbondante assaggio durante il periodo di tirocinio post-lauream presso il centro clinico. Al contempo, il dispiegarsi dell’emergenza sanitaria ha stimolato incessantemente la necessità di apprendere e conoscere modalità nuove, flessibili, e che sopperissero a tutti gli ostacoli del momento. Utilizzando un’immagine, mi piace pensare alla formazione in psicoterapia come una sorta di scuola guida in cui pian piano si imparano delle manovre che col tempo possono diventare automatiche, prestando attenzione ad alcuni segnali del traffico che ci risultano più o meno familiari. Nonostante il graduale apprendimento, però, il traffico è sempre diverso, e il clinico deve essere capace di capire come modulare velocità, frenate e possibili emergenze. Di conseguenza, iniziare il percorso formativo in psicoterapia durante il periodo pandemico diventa una lezione di scuola guida in pieno centro città, di sera, con il traffico prenatalizio, dopo che ha appena nevicato. Non è qualcosa di impossibile, solo di naturalmente più complesso, che implica una serie di svantaggi, ma che col tempo sono sicuro si riveleranno preziosissimi insegnamenti.
Scritto classificatosi al quarto posto della I Edizione del “Premio Eugenia Pelanda – Scritti clinici degli specializzandi in psicoterapia”.
