Il potere del cane

Di Andrea Brenna

Tratto dal libro di Thomas Savage del 1967, “Il potere del cane” è l’ultimo lavoro della neozelandese Jane Campion, premiata per la regia alla 78° mostra del cinema di Venezia. 

Lo spettatore è catapultato nel Montana del 1925, in paesaggi naturali immensi e magnifici che vengono solo lambiti, per il momento, dalla voracità del progresso che sta avanzando spedito nelle grandi città americane. Le montagne, le infinite distese pianeggianti e le mandrie di animali, incorniciano duramente la vita di Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), ricchi fratelli proprietari di un ranch. Le somiglianze dei due tuttavia si fermano qui: George è un uomo tenero, amorevole, aperto al nuovo e desideroso di innamorarsi; si veste con eleganza e raffinatezza, guida un’automobile, ha modi educati e si adatta facilmente agli usi e costumi della sua epoca. Phil invece, pur essendo il più intelligente e forte tra i due, è animalesco, convintamente maschilista e omofobo; sporco per scelta, indossa sempre una lurida divisa composta da una camicia di cotone e una salopette di jeans. Schiavo del suo immobilismo interiore che lo rende un prepotente, egli abbaia ferocemente contro tutto ciò che è diverso da lui: nella locanda di Rose (Kirsten Dunst) e del figlio Peter (Kodi Smit-McPhee) minaccia gli avventori “colpevoli” di volersi divertire e brucia i fiori di carta finemente realizzati dal giovane Peter. Quest’ultimo, considerato da Phil molle e poco virile per il suo aspetto candido e il fisico esile, viene deriso e insultato davanti a tutto il branco di cowboy suoi compari. Rose, abbandonata da un marito alcolista morto suicida qualche anno prima, assistendo all’umiliazione del figlio, si chiude in cucina presa dal terribile sconforto di vivere in un’epoca di uomini insensibili e crudeli. George, che insensibile non è, si accorge del suo dolore e corre a rincuorarla; si innamora e le chiede di sposarlo, lei accetta e i due convolano a nozze. È a questo punto che le psicologie dei personaggi si intersecano tra loro, in un mix di apparenze e verità. La forzata convivenza con Rose sconquassa i granitici ma precari equilibri di Phil: questi la perseguita e cerca di assoggettarla al suo dominio. Sembra che l’uomo riproponga nella realtà ciò che avviene nel suo mondo interno, dove una parte machista, cagnesca, distruttiva e patologicamente idealizzata, tenta di dominare con violenza e persecuzione una parte più umana in cui ancora sono presenti sentimenti e affetti, resuscitati dall’amore tra il fratello e Rose. Per questo la donna è odiata e attaccata, ma anche segretamente invidiata. Phil, che ancora dorme in un lettino da bambino, sintomo di autarchia rispetto alla relazione con l’Altro che lo farebbe sentire nudo e vulnerabile, disprezza le donne e ne annichilisce ogni aspetto di vitalità, vissuta come pericolosa. Le reifica nella forma di prostitute da cui si tiene a debita distanza nel saloon, oppure le accusa di essere delle approfittatrici senza cuore, come nel caso di Rose. Lo stesso trattamento è riservato agli aspetti più teneri e affettivi di sé, duramente repressi perché forieri, forse, di una nostalgica sofferenza non ancora superata. Solo il caloroso e lontano ricordo del suo mentore Bronco Henry, con cui Phil è ancora profondamente legato, riporta alla luce i suoi bisogni di amore e di cura. 

La regista, attraverso un uso allusivo degli scenari ambientali, dipinge un quadro sempre più dettagliato dell’interiorità del protagonista. Egli è capace di vedere parti di sé solamente se sono fuori: la macchia (di Rorscharch) indefinita del cane sulle montagne è simbolo di aggressività e, forse, delle sue pulsioni omosessuali respinte. In questa prospettiva, la reazione vigliacca nei confronti del cavallo schiaffeggiato e insultato, la cruda castrazione del torello (metafora dell’incapacità di generare) e la scena di smembramento di una mucca, fanno pensare a come nel rapporto tra Phil e gli animali sia celato qualcosa di più profondo: vi è una violenta lotta contro le sue odiate parti più fragili, primitive e istintuali ma creative e vitali. Riesce difficile non pensare al conformismo dilagante nella nostra società, in cui le soggettività, considerate per lo più difettose o non sufficientemente adese al pensiero comune, vengono omologate a stereotipi estetici o performativi.

La regista mostra invece uno spazio che sembrava non esistere e, come in un mondo magico che ricorda allo spettatore le vicende di Alice, Phil raggiunge, tramite un passaggio segreto, un luogo ameno in cui può finalmente mostrarsi nudo, senza vergognarsene. Tra verdi alberi e specchi d’acqua, si abbandona, pulito, a dolci bagni e si concede di ritrovare un dialogo più veritiero con se stesso: qui conserva gelosamente un prezioso scrigno al cui interno nasconde riviste di uomini nudi e muscolosi. Scoperto da Peter nella sua monadica intimità, prima s’infuria, poi tenta di stabilire con lui un contatto più autentico. Cerca di essere per Peter, orfano di padre, ciò che Bronco è stato per lui. La personalità di Peter può essere vista come il negativo di quella di Phil: mentre quest’ultimo, almeno nella seconda parte del film, vive al suo interno un’accesa conflittualità, Peter sembra avere meno dubbi. Egli è un ragazzo apparentemente debole, vezzoso, effeminato, acuto e desideroso di rendere felice la madre dopo la scomparsa del padre; nasconde però un animo crudele e sadico sotto una coltre di raffinato scientismo; l’episodio del tenero coniglio squartato ne è l’emblema. Il giovane, accortosi delle tendenze omosessuali di Phil (che comunque rimane in una posizione paterna nei suoi confronti), stabilisce con lui un rapporto privilegiato, rappresentato dall’intreccio dei fili che andranno a comporre la corda che lo stesso Phil gli regalerà. 

In questo film la regista ci mostra però che ciò che appare non è mai ciò che è. Infatti Peter, morbosamente legato alla madre, che nel frattempo è sprofondata in una voragine di depressione e alcolismo a causa delle vessazioni di Phil, prepara freddamente un piano omicida che porterà a termine con efferata crudeltà e disprezzo per i sentimenti umani, ricatapultando lo spettatore alle sibilline parole che il giovane pronuncia nelle prime battute della pellicola.

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