Squid game

Di Dario Contardi

La serie del momento inizia introducendoci alle vicende di Gi-Hun, un uomo la cui vita sembra andare in rovina: sommerso dai debiti, ludopatico, con una anziana madre malata e un matrimonio fallito alle spalle. Dopo una giornata nera Gi-Hun viene avvicinato da un giovane che gli offre l’opportunità di vincere dei soldi, molti soldi, semplicemente giocando. Dopo aver accettato il protagonista si trova insieme ad altri 455 partecipanti, ognuno portatore della propria miseria, su un’isola deserta all’interno di un articolato complesso che ospita “i giochi”, ovvero sfide ad eliminazione (propriamente detta) tra i concorrenti, al diminuire dei quali aumenta la posta in gioco, fino al cruento epilogo. 

Squid Game riprende dinamiche già viste in “Parasite”, dove il tema della diseguaglianza sociale, drammatica realtà in Corea del Sud, viene rappresentata in modo spietato, con brevi intervalli di umorismo “noir” che non reca alcun sollievo allo spettatore.  Il tema dei “giochi mortali” ricorda invece il più occidentale “Hunger Games”. 

Squid Game è un’opera di contrasti, duri come un pugno nello stomaco: ricchezza e povertà, potere e schiavitù, malvagità e innocenza.  Ne veniamo travolti come nella scena del primo gioco, “un due tre stella”, dove i ricordi infantili del nostro immaginario collettivo, ci riportano per un attimo al candore di pomeriggi quieti trascorsi al parchetto con gli amici solo per essere poi spostati allo spietato presente, attraverso il colpo di fucile che abbatte il primo concorrente, permettendoci di realizzare quello che davvero abbiamo di fronte. 

Ciò che mi ha più colpito è stato forse la contrapposizione tra la miseria, la disperazione dei “concorrenti” e l’opulenza sazia, flaccida, dei “VIP”, che porta questi ultimi a godere di forme sadiche di piacere, coperti da maschere di animale, simbolo della loro de-umanizzazione. Per entrambi, si potrebbe dire, la vita ha cessato di avere qualsiasi significato e solo la morte, propria o degli altri, può dare ancora una scintilla, un’iniezione di adrenalina, nella secchezza della propria esistenza. 

Questo contrasto mi ha portato a pensare al grande successo che questa serie ha avuto globalmente, un successo a cui sento spesso reagire con sdegno ed imbarazzo, con subitanee richieste di censura e cancellazione del prodotto. Eppure credo possa essere più utile, ed anche più interessante, domandarci come mai ci incuriosisce cosi tanto. 

Forse possiamo pensare ai VIP come ad una metafora estrema della condizione di pienezza gonfia della nostra modernità, dove tutto ci è accessibile, dove l’imperativo sembra spesso essere quello di ottimizzare il piacere e il godimento nel minor lasso di tempo possibile, dove solo un click si frappone tra noi e il raggiungimento del nostro desiderio. 

Ci si attacca voyeuristicamente alle notizie di cronaca, immediatamente disponibili nei loro dettagli più crudi, spesso senza provare una vera empatia verso le vittime di tragedie, che potrebbero essere le nostre, ma provando invece un senso di curiosità morbosa che porta a sentirsi illusoriamente al sicuro e lontani da tutto, come i VIP nella loro disumana stanza del piacere. In una condizione del genere spesso si può far largo un sentimento di indifferenza, di perdita di appetito, di vuoto incolmabile che porta a seguire le seduzioni dei nostri “Squid Game”. 

Il contrasto tra pieno e vuoto diventa tangibile e labile il loro confine. 

Penso alle esperienze estreme, ad esempio in voga tra i giovani, di cui a volte si legge nei drammatici fatti di cronaca. Dai duelli all’ultimo sangue tra baby gang, alle inquietanti “sfide” virtuali proposte via social come “Blue Whale” o il più recente “Jonathan Galindo”, dove ai concorrenti (giovanissimi adescati sui social) venivano proposte una serie di prove, ad intensità crescente, in cui veniva chiesto loro di mettersi in situazioni di pericolo, fino ad arrivare al suicidio vero e proprio. 

Forse oltre a provare un sano orrore verso questi fenomeni, come lo prova il protagonista di squid game quando si accorge che la maggioranza dei concorrenti sceglie di rimanere nel gioco nonostante ci fosse la possibilità di lasciarlo, dovremmo anche interrogarci sul fascino che possono esercitare su tutti noi, in particolare sui giovani. La ricerca adrenalinica di sensazioni, di uno squarcio nel telo della noia e della solitudine, come può esserlo un taglio nella pelle degli attacchi al corpo cui sempre più spesso abbiamo assistito negli ultimi anni, ci parlano a mio avviso, più che della morte, del disperato bisogno di sentirsi vivi. Forse la vera sfida per noi diventa un po’ come quella di Gi-Hun, cui infatti finiamo un po’ tutti per fare il tifo, ovvero cercare mantenere integra la propria umanità, la consapevolezza degli altri e il desiderio di conoscere il loro nome (nel gioco le persone sono identificate da numeri) e le loro storie. Tentare di resistere, nonostante una propaganda che suggerisce come l’altro sia una minaccia e che l’unica cosa che conta sia il narcisistico raggiungimento del successo personale, spesso confuso con l’appagamento e la serenità, simboleggiato dal ricco montepremi del gioco. Gi-Hun alla fine riesce a vincere, ma deciderà di non utilizzare per sé nemmeno una piccola parte del premio, anche se  l’orrore di ciò cui ha preso parte non gli consentirà una vera redenzione né un conforto. Almeno non in questa stagione. 

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