La prima cosa che invita a prendere in mano Mor – Storia per le mie madri è la sua copertina nero-notte, occupata al centro da un ovale color panna decorato da simboli, che evidentemente vogliono raccontarci una storia, anche se non sappiamo ancora quale. Si intuisce una storia a più voci, stratificata, che risuona attraverso le generazioni, che nel tempo continua a vibrare, come un tamburo tribale. E questa copertina così evocativa è solo un primissimo assaggio della graphic novel dai tratti delicati e puliti con i quali l’autrice ci invita a partecipare a un suo personalissimo viaggio a ritroso nel tempo, mosso dal bisogno di conoscere a fondo la sua mamma, di sentirla dentro di sé, di darle voce raccontandone la storia di figlia e bambina prima, di donna poi e infine di mamma. Una mamma dalle tinte mutevoli, una mamma-foca circondata da un gelo artico, una mamma che ha un buco nella pancia fin da quando era piccola, un buco pericoloso, nel quale rischia sempre di sprofondare.
Sara Garagnani fa parlare la mamma in prima persona nella prima parte dell’opera, per poi prendere la parola e presentarsi nella seconda parte, che comincia quando l’autrice ha sette anni. “Sono Sara, ho sette anni e un gatto, Micchi. Cioè, è il gatto della mamma. La mia mamma si chiama Annette, perché lei è svedese. Il mio papà invece ha i baffi, si chiama Agostino, lui è italiano. Così io sono mezza italiana e mezza svedese. Cioè… non sono intera”. E in questo non sentirsi intera c’è il riconoscere che molto di lei – come di ognuno di noi – è intrecciato alle vicende di chi l’ha preceduta, la sua mamma, la mamma della sua mamma. Nella dedica iniziale leggiamo: “Mor nella lingua svedese significa madre. ‘Nonna materna’ si dice mormor. ‘Bisnonna’ si dice mormorsmor e così via: seguendo a ritroso la linea materna, ogni generazione di madri viene nominata nella parola.”. Un mormorio che si propaga attraverso le generazioni.
Così accompagniamo Sara nella sua esplorazione di quella che lei un po’ conosce e un po’ immagina essere stata la storia della sua mamma, una storia dolorosa e frammentata, che ci conduce fino a oggi e fino a qui, ossia fino al progetto e alla realizzazione di Mor. È una narrazione piena di ferite, a partire dalle primissime vignette che raffigurano un cielo svedese ad acquerello nel quale si apre uno squarcio accompagnato dalle parole “ci sono inverni in cui la neve arriva passando attraverso le maglie larghe di un cielo scucito che si slabbra. Sono bianche le prime parole che cadono”.
È proprio da questa prima ferita che le parole possono cominciare a uscire, una ferita primitiva che Sara riceve come un’eredità – fino a quel momento non vista e quindi non detta, non dicibile – ma che in Mor trova voce. C’è una grande ferita che fa venire i buchi nella pancia e che squarcia persino il cielo, ma insieme alla ferita esiste anche la possibilità di averne cura, di provare a guarirla, di farla parlare.
“Non ho scelto io da chi discendere, ma non posso che essere grata a chi è venuto prima di me perché ha contribuito alla mia nascita. Dedico questo libro a tutte e tutti loro, nessuna e nessuno escluso, con tutto l’amore di cui sono capace. Questo è il mio canto”.